E Tu Slegalo Subito | L’ultima rivoluzione di Basaglia, ancora da compiere
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2038
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L’ultima rivoluzione di Basaglia, ancora da compiere

L’ultima rivoluzione di Basaglia, ancora da compiere

Alcuni pazienti nel cortile della rems di Ceccano, in provincia di Frosinone, aprile 2018. (Graziano Panfili per Internazionale, Ulixes pictures)

Internazionale, 14 maggio 2018

di Giada Zampano, giornalista

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.
Franco Basaglia, “Conferenze brasiliane”

È una mattina calda di fine aprile quando arrivo a Ceccano, un comune in provincia di Frosinone noto per il castello medievale dei Conti, ma anche perché per settant’anni la sua storia si è intrecciata con un luogo che tutti qui chiamano ancora “il manicomio”. Dell’edificio oggi resta un rudere che si staglia imponente su una collinetta, con le sue finestre cieche e il parco ormai abbandonato. Hanno provato a riconvertirlo più volte, senza riuscirci del tutto.

A poca distanza, nella casa che ospitava una comunità terapeutica, tre anni fa è stata realizzata una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems). È qui che viene accolto chi ha commesso un reato ed è stato giudicato dal tribunale “infermo o seminfermo di mente”, cioè non in grado di intendere e volere al momento in cui l’ha compiuto, ma socialmente pericoloso.

La struttura è gestita dall’azienda sanitaria locale. Tutti sono sottoposti a cure psichiatriche e devono seguire un percorso di riabilitazione stabilito con i dipartimenti di salute mentale, al termine del quale sono affidati a strutture residenziali psichiatriche o a gruppi–appartamento, oppure possono tornare a casa – se ne hanno una – monitorati dai centri di salute mentale.

Per trovare la rems di Ceccano ci vuole un po’ di tempo, nascosta com’è dagli alberi e da un’alta rete metallica – una barriera che separa in modo netto il mondo esterno da quello interno.

Al primo sguardo sembra un bunker. Al pesante cancello blindato mi accolgono le guardie in divisa, che poi scopro essere vigilantes privati e non armati, che aiutano medici e infermieri a “ristabilire l’ordine” nel caso qualcuno degli ospiti diventi aggressivo, come a volte capita.

A quarant’anni dalla legge 180 del 1978, voluta dallo psichiatra e neurologo Franco Basaglia, le rems come quella di Ceccano hanno archiviato l’esperienza vergognosa degli ex manicomi criminali.

Gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) non erano contemplati tra le strutture prese in esame dal provvedimento per la chiusura. Dipendevano dall’autorità penitenziaria – e quindi dal ministero della giustizia – e così le persone rinchiuse tra le loro mura ci restarono fino alla legge 81 del 2014 e alla chiusura dell’ultimo a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, nel febbraio 2017.

Erano luoghi di “estremo orrore”, per citare le parole dell’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano e porvi fine è stato un grande passo in avanti, un completamento della rivoluzione basagliana. Ma ancora oggi ci sono delle difficoltà da superare, come mi spiegano a Ceccano.

Fuori dell’edificio di tre piani ci sono un piccolo giardino con panche e tavoli in legno, e un campetto da calcio recintato. Nell’orto, un’operatrice sta togliendo le erbacce insieme ad alcuni pazienti – una delle tante attività di gruppo organizzate nella residenza.

Il personale – una dozzina tra medici e operatori – si assicura che i malati psichiatrici siano sempre impegnati in progetti comuni, come le lezioni di italiano e geografia per gli stranieri nella sala multimediale, la pet therapy, la lettura dei giornali, le gite per pescare in un laghetto a pochi chilometri da Ceccano, le uscite per gli acquisti al centro commerciale e i pomeriggi al cinema di Frosinone. C’è stato anche un corso per pizzaioli che alcuni pazienti hanno seguito e che potranno sfruttare una volta usciti.

All’interno domina una calma quasi irreale. Una luce soffusa irradia dalle pareti dipinte di rilassanti tonalità di verde. Il silenzio è interrotto di tanto in tanto dalle urla di un paziente grande e grosso con un ritardo cognitivo, sopravvissuto all’opg.

Le stanze, quasi tutte doppie, sono scarne ma pulite, e arredate con mobili nuovi di legno chiaro. Le pareti sono quasi immacolate, con pochi poster affissi e qualche foto di amici e parenti, a testimonianza di vite rimaste sospese in una sorta di limbo.

I pazienti sono venti, tutti uomini. Molti sono fuori in giardino a fumare, al sole. La sigaretta è un “rito intoccabile”, sorride Luciano Pozzuoli, psichiatra di 58 anni che dirige la struttura. Altri stanno finendo di mangiare nella sala mensa, intorno a un lungo tavolo comune con sedie colorate. Qualcuno è rimasto a letto nella sua stanza, con le porte rigorosamente aperte – le chiudono a chiave solo la notte, spiegano i medici, per la sicurezza di operatori e pazienti.

Quando sono chiuse, si può controllare cosa succede dentro attraverso degli oblò. In una stanza della struttura sono applicate le tecniche di “de-escalation” per gestire i comportamenti aggressivi dei pazienti. Ma Pozzuoli ci tiene a mostrare che è una stanza come le altre: niente letto di contenzione, nessuna traccia di quelle cinghie con cui i pazienti dei vecchi manicomi criminali erano legati per giorni, una pratica che resiste ancora in alcune strutture e non si cancella per chi ha vissuto sulla sua pelle l’ergastolo bianco – cioè una pena di cui non si conosceva la fine – degli opg.

Il fallimento degli opg
È quello che è successo a Gianni – nome di fantasia – che ha 58 anni e da due vive nella rems di Ceccano. Per 27 anni è stato recluso in diversi opg: una storia drammatica che l’ha reso completamente impermeabile ai tentativi dei medici di integrarlo nella comunità, con attività di svago e scambio reciproco.

“Non mi interessa uscire da qui, voglio solo restare nella mia stanza singola. E vorrei anche un fornellino per cucinare i miei pasti, un frigorifero e una televisione, perché i programmi che guardano gli altri non sono di mio gradimento”, dice da dietro a un paio di occhiali scuri a farfalla. Indossa una camicia a righe su pantaloni di fustagno e un cappellino da pesca.

Ha commesso un omicidio trent’anni fa ed è finito in carcere. Ci è rimasto nove mesi, poi gli è stato riconosciuto il “vizio di mente” – cioè l’incapacità di intendere e volere nel momento in cui ha commesso il reato – e gli è stata diagnosticata una forma di schizofrenia paranoide. A quel punto è stato mandato in un opg.

Ci tiene a dirmi che lo preferiva alla rems, perché là gli permettevano di stare da solo e imponevano a tutti regole rigide. Dà segni di fastidio quando le voci di altri pazienti, a tratti rumorose, arrivano nella stanza attrezzata a palestra dove siamo seduti.

Con naturalezza racconta che nell’ex opg di Aversa, dove ha passato anni per poi essere trasferito a Barcellona Pozzo di Gotto, le guardie penitenziarie lo picchiavano spesso “anche se in teoria non potevano farlo”. Dice anche di essere stato punito con la contenzione per aver ferito alla gola un altro detenuto con una lametta. “Sono rimasto legato al letto per giorni, ed è molto peggio che essere picchiato, perché i muscoli si contraggono e il dolore diventa insopportabile”.

Gianni dice che uscirà tra un anno. “Ma continuerò a vivere come qui, da solo, guardando i miei programmi in tv e leggendo i miei libri di storia. Voglio limitare i miei contatti con l’esterno al minimo indispensabile. Fare la spesa, magari scambiare due chiacchiere con i negozianti, ma niente di più”.

Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti del Lazio e fondatore dell’associazione Antigone, nota che Gianni è un esempio classico del fallimento dell’istituzione “totalizzante e alienante” dell’opg.

“Lo scopo delle rems deve essere esattamente l’opposto”, spiega. “Le misure devono essere limitate nel tempo, come prevede la legge, e garantire il reinserimento sociale degli individui col coinvolgimento di tutti i servizi di salute mentale territoriali, prima e dopo la rems”.

Passi avanti e problemi
A quattro anni dall’approvazione della legge che li ha istituiti, uno dei nodi irrisolti di questi istituti è il fatto di essere delle strutture a metà tra gli ospedali e le carceri. “Purtroppo siamo divisi tra la funzione di cura e quella di detenzione, e a volte è difficile conciliare questi due aspetti. Soprattutto quando arriva un paziente aggressivo, pericoloso, perché è in gioco anche la nostra incolumità”, aggiunge Pozzuoli.

Lo psichiatra ricorda di aver ricevuto una testata sul naso a Ceccano, ma dice che gli episodi violenti non sono frequenti. Comunque, in occasioni del genere, non sono i medici della rems a doverli gestire, ma le strutture ospedaliere dove i pazienti vengono portati per il trattamento sanitario obbligatorio (tso).

Tuttavia, questo non è il problema più grave delle rems. Il sistema è stato organizzato sulla base di strutture piccole, ognuna con venti posti. Ma in tutta Italia sono solo trenta, e questo ha due conseguenze: liste di attesa molto lunghe e persone private di un diritto.

Oggi le persone assistite sono 604 – di cui 54 donne. Quelle che aspettano di entrarvi sono 441, mentre tra le cinquanta e le sessanta sono in carcere, come mi ha confermato il dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap).

Il fatto è che non tutte le regioni hanno recepito e attuato per tempo la legge 81. A intasare il sistema – privo tra l’altro di un coordinamento nazionale, come lamentano molti psichiatri – ci pensano poi le misure di sicurezza provvisorie (il corrispettivo della custodia cautelare in carcere) in base a cui i magistrati mandano nelle rems persone in attesa di giudizio, che in alcuni casi potrebbero essere inserite in comunità o case famiglia.

Secondo il rapporto dell’associazione Antigone pubblicato ad aprile, il numero delle misure provvisorie è in crescita: sono infatti il 22 per cento in più rispetto al 2017, e ormai rappresentano il 46 per cento del totale dei pazienti delle rems. “I prosciolti per vizio totale di mente, ma socialmente pericolosi, che dovrebbero costituire la categoria giuridica paradigmatica del ricoverato nelle rems, sono 215, pari al 37 per cento del totale, una netta minoranza”, si legge nel rapporto.

È evidente, notano gli autori del rapporto, che con la chiusura degli opg sia venuta meno la “valvola di sfogo” attraverso cui il sistema giudiziario e il carcere si liberavano dei casi più problematici.

Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal canto suo, dice di non potersi occupare della cura dei detenuti che aspettano di essere trasferiti nelle rems, e accusa le regioni di ostinarsi a ignorare la questione. “Non abbiamo le risorse necessarie per assisterli, ma dalle rems continuano a dirci che non hanno posto e che non possono accoglierli”, spiega il capo della direzione generale Detenuti e trattamento, Calogero Piscitello. “Il passaggio dagli opg alle rems è stato un fallimento, e nessuno se ne sta assumendo le responsabilità”.

Il corto circuito tra servizi territoriali, carcere e rems ha generato casi estremi di illegalità, come quello di Massimiliano Spinelli, 46 anni, romano. Giudicato incapace d’intendere e di volere, ma ritenuto socialmente pericoloso, doveva essere destinato a una delle cinque rems del Lazio. Ma in nessuna c’era posto, e così ha passato quasi un anno nel carcere di San Vittore a Milano. Solo ad aprile, grazie all’intervento degli attivisti di Opera Radicale e del garante dei detenuti Anastasia, ha potuto essere accolto dalla rems di Palombara Sabina.

Una via per superare le rems
La rivoluzione di Basaglia cominciò alla fine degli anni sessanta con una serie di critiche: contro l’istituzione del manicomio, contro il ruolo tradizionale dello psichiatra come custode e carceriere di malati considerati irrecuperabili, contro la malattia mentale come stigma sociale.

“Ogni negazione è possibile, nella pratica, se insieme costruisci altro”, ha scritto Franca Ongaro Basaglia nell’introduzione alla ristampa di L’istituzione negata(1998). L’utopia di Basaglia continua a camminare sulle gambe delle allieve e degli allievi dello psichiatra. Una di loro è Giovanna Del Giudice, presidente dell’associazione Con/F/Basaglia e attivista di Stop opg.

“Continuare la sua rivoluzione significa puntare a far scomparire le stesse rems, come alla fine degli settanta scomparvero i manicomi”, dice Del Giudice. “Ci sono tante differenze tra una struttura e l’altra, ma una cosa che le accomuna è il lavoro straordinario degli operatori, che dovrebbe diventare patrimonio dei dipartimenti di salute mentale sul territorio. Grazie a loro, i servizi locali potrebbero prendersi carico dei pazienti che ora sono nelle rems, finendo per renderle inutili”, spiega. E cita il caso del Friuli-Venezia Giulia, terra basagliana di manicomi liberati, che ha fatto la scelta coraggiosa di non costruire nuove strutture e destinare i fondi per le rems ai servizi di salute mentale.

Tuttavia, nonostante i buoni auspici, ancora oggi resistono pratiche che fanno pensare più al passato che a un futuro senza rems. È il caso dell’uso della contenzione fisica.

Secondo il rapporto del comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), organo del Consiglio d’Europa, stilato sulla base di visite fatte nel 2016, la contenzione sarebbe stata usata nelle rems di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia. Nella relazione sul passaggio dagli opg alle rems, il commissario Franco Corleone parla di “918 episodi che interessano 59 pazienti”, in un periodo compreso tra il 1 aprile 2015 e il 31 marzo 2016. “Si tratta di un numero di contenzioni molto alto, ma in ogni caso va segnalato che tra queste contenzioni, 742 sono rivolte a una donna che presenta un quadro di ritardo mentale grave e manifesta comportamenti etero e autoaggressivi”, si legge nel documento.

La direttrice di Castiglione, Maria Gloria Gandellini, spiega che contenzione meccanica e farmacologica sono usate solo in casi estremi, per salvaguardare l’incolumità di pazienti e operatori, e seguendo rigorosamente i protocolli.

“Si può ancora ricorrere alla contenzione, strumento necessario quando il paziente rischia di diventare pericoloso per sé e per gli altri. Ma cerchiamo di farlo sempre meno, secondo regole molto precise, e valutando tutte le alternative, come la possibilità di fare trattamenti sanitari obbligatori in ospedale”, dice.

Nel panorama disastrato degli opg, Castiglione aveva strutture più nuove e moderne rispetto a quelle fatiscenti di altri istituti. Proprio per questo, la regione Lombardia, dopo l’approvazione della legge 81, decise di investire nella sua riconversione. Tuttavia, dopo poco si è ritrovata a pagare i ritardi delle altre regioni e ad affrontare una situazione di grave sovraffollamento.

Le sei rems di Castiglione dovrebbero ospitare al massimo centoventi pazienti. Oggi ce ne sono circa 160, un numero che resta alto nonostante stiano nascendo nuovi spazi e si stia investendo nella formazione di altri operatori e progetti per la cura e la riabilitazione. “Per lavorare bene noi dovremmo avere novanta pazienti, e potremmo fare cose eccezionali. Ora stiamo facendo cose decorose”, conclude Gandellini.

Un impegno plurale
Psichiatri ed esperti concordano sul fatto che, al di là degli sforzi delle singole rems e delle carceri che stanno provando a occuparsi dei detenuti con patologie psichiatriche, per prendersi davvero cura di loro è necessario allargare le responsabilità e coinvolgere l’intera rete sociale, come insegnava Basaglia.

“Abbiamo bisogno di risorse e strumenti sempre nuovi”, spiega Ivan D’Amato, 38 anni, convinto basagliano e responsabile del reparto psichiatrico del carcere di San Vittore a Milano. “Anche i disturbi si evolvono, influenzati dall’uso di sostanze stupefacenti, e cambiano anche le persone coinvolte. Oggi, per esempio, ci troviamo a lavorare con molti senza fissa dimora e immigrati che, traumatizzati e abbandonati a se stessi, finiscono per commettere reati”.

“È un dato di fatto che sarebbe meglio lavorare con i malati psichiatrici fuori dal carcere”, aggiunge. “Ma se le alternative non ci sono, succede inevitabilmente che la galera sia l’unico posto riservato alle persone mentalmente fragili che hanno compiuto dei reati e che non hanno né un lavoro né una famiglia. Bisognerebbe assisterli prima, per evitare che compiano dei crimini, e dopo, per individuare i migliori percorsi di recupero”.

A Matteo – nome di fantasia – uno degli ospiti più giovani della rems di Ceccano, l’impegno degli psichiatri e il costante lavoro dell’assistente sociale hanno consentito per la prima volta in vita sua di godersi uno spettacolo teatrale.

È successo all’Antares, il piccolo teatro cittadino, dove Matteo è arrivato con altri tre compagni della rems in una tiepida serata di un sabato primaverile. “Mi è piaciuto molto lo spettacolo, anche se del dialetto ceccanese non ho capito tanto”, ammette sorridendo e fumando l’ennesima sigaretta all’uscita. “Ma voglio sicuramente tornarci a teatro, quando sarò fuori, libero”.